A fronte dell’omessa dimostrazione, ad opera del datore di lavoro, della giusta causa o giustificato motivo soggettivo del licenziamento, il carattere ritorsivo del provvedimento espulsivo può dirsi provato sulla scorta di presunzioni gravi, precise e concordanti.
La Corte di Appello di Milano – Sezione Lavoro, avvalorando integralmente la sentenza del Giudice di prime cure, ha respinto tutti i motivi di gravame proposti dal datore di lavoro e riconosciuto la fondatezza delle censure svolte dallo Studio Legale Riviera in ordine all’illegittimità del licenziamento comminato al dipendente ed al carattere ritorsivo del provvedimento espulsivo.
La Corte d’Appello Meneghina ha ribadito che incombe sul datore di lavoro l’onere di provare la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo del licenziamento e, benchè sia il lavoratore a dover, di converso, provare l’eventuale carattere ritorsivo del recesso, il motivo illecito (ovvero ritorsivo, arbitrario e per rappresaglia) ben può essere dimostrato mediante presunzioni, se gravi, precise e concordanti.
Indizi presuntivi sintomatici della ritorsione sono stati, a tal uopo, ravvisati nella strettissima connessione temporale tra le rivendicazioni formulate dal dipendente e la successiva contestazione di addebito disciplinare; nella circostanza che gli addebiti concernessero condotte risalenti nel tempo e nell’ammissione, da parte della datrice di lavoro, di aver sino ad allora soprasseduto sulle asserite negligenze del dipendente.
Di particolare rilievo è altresì la constatazione, da parte della succitata Corte di Appello, che non vale ad escludere il carattere ritorsivo del licenziamento l’eventuale infondatezza delle rivendicazioni cui esso abbia fatto seguito, giacchè l’indagine diretta ad accertare la dedotta reazione “vendicativa” del datore di lavoro deve essere compiuta alla luce della situazione vigente all’epoca dei fatti, a prescindere dal successivo vaglio giudiziale sulla legittimità delle pretese rivendicate.
La fattispecie in esame, in cui il datore di lavoro-appellante aveva omesso di costituirsi nel giudizio di primo grado, ha altresì offerto l’occasione per ribadire quell’orientamento giurisprudenziale consolidato in forza del quale, sebbene la contumacia costituisca un comportamento neutro che preclude l’applicazione del principio di non contestazione, ciò non di meno non può attribuirsi al contumace alcun vantaggio rispetto alla parte costituita, quale il diritto di sollevare eccezioni o produrre documenti o chiedere prove solo in grado di appello. Per l’effetto, anche nel rito del lavoro, la parte rimasta volontariamente contumace in primo grado deve accettare il processo nello stato in cui si trova e soggiace, in appello, alle preclusioni in cui sia incorsa.